Niente, nella pittura della laziale Alessandra Veccia, potrebbe prescindere dalla fortissima consapevolezza del suo essere donna. Non si tratta, evidentemente, della semplice constatazione del proprio stato sessuale, significa avere la convinzione che possa esistere un modo di pensare, di immaginare, di sentire al femminile, tale da risultare irrimediabilmente diverso da quello maschile.
E’ vero che quando ho visto per la prima volta i quadri della Veccia, non sapendo chi li avesse fatti, mi é venuto spontaneo pensare, da maschio impenitente, che fossero opera di un uomo. Mi pareva che tanta frequenza, tanta ostentazione nel rappresentare il nudo di donna e tanta dedizione, tanto trasporto nella sua resa non sarebbero potuti giungere che da un estasiato esponente dell’altro sesso, così come la storia dell’arte ci ha insegnato a credere.
Mi sbagliavo, perché in quella esibizione di corpi non c’era maschile contemplazione, intenta a carpire il segreto della loro attrazione, ma la lucidità e la serenità d’animo di chi riconosce in essi null’altro che il proprio parametro naturale di riferimento, certamente fisico, dunque reale, razionale, ma anche inconscio, come se quelle dipinte dalla Veccia non fossero delle donne, ma le donne, anzi, la donna, nell’unica maniera che gli occhi e la mente dell’artista possono concepire.
Non ci sorprenderemo ulteriormente, quindi, a constatare che quello dipinto dalla Veccia é un universo rigorosamente ginecentrico come poteva esserlo, per esempio, quello di Tamara de Lempicka, anche se si tratta di un’analogia puramente concettuale, essendo assai diversi i mondi a cui le due artiste danno vita, staccato dal contingente quello della vivente, in una dimensione mentale la cui surreale imprevidi- bilità, in certi aspetti vicina a quella di Raimondo Lorenzetti, sconfina volentieri nel gusto per l’arcano, calato nell’alta società del suo tempo e improntato a un formali- smo di paganeggiante sensualità quello della defunta polacca.
Se la Lempicka non aveva incertezze nel considerare la donna la migliore delle con- dizioni possibili, tutto risolvendo nell’esteriorità di apparenze tetragone e un pò bovine, la Veccia sembra porsi ancora delle domande, alla ricerca di un’identità con sé stessa e con il proprio sesso che va condotta necessariamente nel profondo del pro- prio io, non potendosi esaurire nel solo riconoscimento di una certa corporeità. Che Minerva l’assista.
Vittorio Sgarbi